20 aprile 2006

Virtù perdute di una società «low cost»

Un'intervista con l'economista Stefano Zamagni. Dall'onda d'urto del neoliberismo sul «modello sociale europeo» alle discussioni attorno al destino del welfare state e alle proposte di un'economia «civile». Un provocatorio sguardo sul presente che rivaluta l'etica del lavoro in nome di attività «no profit» COSMA ORSI
Reciprocità, solidarietà, responsabilità, partecipazione, economia civile. Sono parole ed espressioni che nel lessico di Stefano Zamagni occupano un ruolo centrale per orientare la sua riflessione attorno al welfare state. Esponente di quel cattolicesimo democratico che in Italia ha contribuito talvolta ad un'analisi economica sulle virtù dell'intervento statale nella produzione della ricchezza, Zamagni ha indirizzato sempre più la sua riflessione su come lo stato sociale possa essere riformato mantenendo il carattere universale nell'erogazione dei servizi sociali e, al tempo stesso, favorire la partecipazione attiva nella definizione dei progetti di intervento pubblico. Significativi sono stati i suoi saggi a favore del cosiddetto terzo settore, considerato però non come un fattore sostitutivo bensì complementare dell'intervento statale. L'intervista parte dalla sua ultima proposta sull'istituzione di un «welfare civile», ma poi l'incontro ha passato in rassegna i progetti maturati in ambito europeo di riforma del welfare state.

Nei suoi studi lei ha sostenuto che la filosofia politica si dimostra inadeguata rispetto alla sfida posta della «perdita dei confini geografici dell'agire umano» perché non riesce a concettualizzare un ordine sociale nel quale trovino simultaneamente applicazione il principio dello scambio di equivalenti, il principio di redistribuzione e il principio di reciprocità. Non crede che l'attuazione di questi tre principi regolatori richieda un ripensamento radicale del contratto sociale cha da più di mezzo secolo caratterizza le nostre società?

La risposta non può che essere un sì deciso. A mio giudizio, nell'epoca post-industriale, ne la tradizione liberale ne quella solidarista comunitaria sono sufficientemente attrezzate ad affrontare i problemi che oggi caratterizzano le nostre società. Pensiamo ad esempio al conflitto tra identità. Le varie teorie della giustizia ci vengono in aiuto fin tanto che il problema riguarda il possesso o l'accesso a beni e risorse - esempi classici sono la lotta all'ineguaglianza, all'esclusione sociale, all'iniqua redistribuzione del reddito. Ma quando il problema riguarda l'affermazione dell'identità di tipo etnico, religioso, sessuale o culturale esse non ci sono più di alcun aiuto.
Inoltre, è indiscutibile che nelle società europee il baricentro si va spostando sul lato del consumatore e sulla conseguente società low-cost caratterizzata dalla presenza di imprese che riescono ad abbattere i costi di produzione e quindi a diminuire i prezzi dei beni e servizi che offrono riducendo i salari (reali) e le tutele sindacali. Un mutamento che è alla radice di un nuovo conflitto intrapersonale, perché una società low-cost tende a produrre un Welfarelow-cost.
A fronte dei problemi sopraindicati, la sollecitazione che propongo è di dilatare l'orizzonte, configurando un nuovo contratto sociale che contempli un modo di organizzare l'attività economica che, accanto al principio dello scambio di equivalenti e della redistribuzione, faccia spazio al principio di reciprocità. Capace cioè di articolare il discorso economico in modo tale da far diventare la categoria della reciprocità parte integrante del discorso economico. Il principio di reciprocità non deve però essere rimandato al volontariato o essere riferito al terzo settore, come oggi avviene.

Secondo lei è possibile oggi individuare principi condivisibili universalmente sui quali costruire una giustizia sociale condivisa? O piuttosto ritiene che tale impresa sia impraticabile?

La modernità, che si è soliti far nascere con la Rivoluzione Francese, è stata caratterizzata dall'idea che esistessero valori universali indipendenti dalle connotazioni storiche e dai luoghi. Questa è stata la grande intuizione dell'Illuminismo francese, scozzese e italiano - milanese e napoletano in particolare. Le matrici culturali non occidentali, però, hanno fin da subito messo in dubbio che i valori e i diritti umani occidentali fossero universalmente condivisibili, spesso bollando quell'intuizione di occidentalismo. Preso atto del fatto che esistono universi morali estremamente eterogenei, i paesi occidentali hanno provato a stabilire regole procedurali che permettono la convivenza pacifica.
Questa soluzione, fino ad anni recentissimi, ha sortito l'effetto desiderato. Ma al momento attuale versa in crisi, perché è come nascondere la polvere sotto il tappeto. Il problema è, a mio avviso, che o i valori fondamentali esistono o non esistono. Ma se esistono non possiamo relativizzarli in base alle culture o alle identità specifiche perché in tal modo si cade in una contraddizione pragmatica. Come si può uscire da questa difficoltà? La strategia che suggerisco è quella per cui i partecipanti al dialogo interculturale si impegnino a ricavare dai principi fondamentali che ognuno è libero di scegliersi sia i criteri di giudizio sia le direttive d'azione. Se i risultati che discendono dalle direttive d'azione, che a loro volta discendono dai criteri di giudizio, sono auto-contradditori o producono effetti perversi, allora i partecipanti al dialogo devono ammettere che nel loro rispettivo sistema di principi morali fondamentale c'è qualcosa da correggere.

Ritiene che l'attuale architettura istituzionale rappresentata da agenzie internazionali quali la Banca Mondiale il Fondo Monetario Internazionale, e l'Organizzazione Mondiale per il Commercio siano congeniali a un modello di sviluppo socialmente sostenibile?

La minaccia più grande alla sostenibilità dello sviluppo deriva oggi dalla povertà. Quando vedo proposte che ignorano questo aspetto mi viene da suonare il campanello d'allarme. Alludo in particolare alle regole emanate dal Wto che quando parla di sostenibilità dimentica completamente la questione della povertà. Non ci si può occupare soltanto dei così detti gain from trade. Ciò che i rappresentanti del Wto dimenticano è che ci sono anche i pains from trade. Può anche essere vero che che la liberalizzazione degli scambi internazionali arreca benefici, ma ciò di cui la teoria del commercio intenzionale non si occupa è la distribuzione di questi benefici tra i paesi e tra gruppi sociali all'interno di uno stesso. Né si preoccupa, quella teoria, della sequenza temporale secondo la quale si realizzano i guadagni. Ma le persone vivono nel tempo. Quello del Wto è un modo assai contraddittorio, e miope, di interpretare il proprio mandato.

Non più tardi di qualche mese c'è stata una ripresa, almeno a livello accademico, della discussione sui modelli di Welfare state europei. Come giudica il modello Scandinavo? Pensa che sia possibile esportarlo altrove?

Non condivido l'idea di esportare il modello Nordico. E' indubitabile che esso abbia dei vantaggi e delle articolazioni di grande efficienza. Ma è pericoloso in una prospettiva di lungo termine. Alla radice di questi modelli infatti, soprattutto di quello Danese, c'è l'idea secondo cui il lavoro non è fondativo della persona umana. Il lavoro è solo una occasione di procacciamento di potere d'acquisto. A livello macro, il sistema ha come obiettivo quello di aumentare l'attività produttiva e i profitti. Qualora il mondo della produzione abbia, per una ragione o un'altra, interesse a lasciare a casa parte della popolazione attiva il sistema di Welfare per 4 anni si fa garante della sopravvivenza di quelle persone.
L'idea che un lavoratore possa stare a casa per 4 anni e ricevere benefici monetari mi fa rabbrividire in quanto ciò implicitamente ci dice che il lavoro non ha valore di per sé. Rileggendo alcuni testi appartenenti alla scuola economica francescana risalenti alla fine del 1300 ho trovato un passaggio rivelatore: «L'elemosina aiuta a sopravvivere, ma non a vivere. Perché vivere è produrre, e l'elemosina non aiuta a produrre». Ora il modello Danese, anche se in forma estremamente civilizzata è quello dell'elemosina. Il punto è che il vero Welfare non è quello che garantisce a tutti la possibilità di sopravvivere, ma che da a tutti i cittadini la possibilità di produrre. Se non si riesce a raggiungere tale scopo si diminuisce l'auto-stima delle persone. Il modello di Welfare dei paesi nordici non è un modello della felicità pubblica ma dell'utilità sociale. La mia scelta però è a favore della felicità, perché le persone vivono per essere felici, come già Aristotele diceva.


Molti economisti sostengono che uno dei maggiori problemi dello sviluppo economico europeo - e italiano in particolare - sia rappresentato dalla crescita della quota del prodotto interno che assume la forma di reddito. A suo parere quali forme dovrebbe assumere la fiscalità e quali livelli di tassazione possono essere compatibili con un efficiente sistema di stato sociale?

Il dramma principale dell'economia europea è l'eccessiva posizione della rendita rispetto all'area del profitto. Ora, la rendita è sempre parassitaria. Non esiste la rendita produttiva. Anche quando non distrugge il reddito impedisce la creazione di nuova ricchezza. Quando in una data economia le posizioni di rendita superano una certa soglia, diciamo tra il 15 e il 20% del Prodotto interno lordo il destino di quell'economia è segnato. Se le posizioni di redita superano quella soglia, la conseguenza è l'abbassamento del tasso di imprenditorialità. E quando ciò accade non c'è ben poco da fare. Purtroppo, oggi l'Europa si ritrova in questa scomoda situazione.
A mio parere il problema è talmente serio che la leva fiscale è oggi uno strumento insufficiente. Bisogna puntare a modificare l'assetto istituzionale delle regole del gioco economico, nel senso di modificare il modo in cui funziona del mercato dei capitali. Piuttosto che tassare la rendita finanziaria, si dovrebbe evitare che essa possa superare livelli di indecenza, come oggi accade. Inoltre. se lo stato per creare gettito tassa la rendita, implicitamente la legittima.

L'Unione Europea si è dotata di una politica monetaria comune. Non si può dire lo stesso per quanto riguarda quella fiscale. A suo avviso quanto pesa l'assenza di una politica fiscale comune per un progetto di sviluppo economico e sociale che sia all'altezza dei cambiamenti avvenuti nel mondo della produzione e del lavoro?

Pesa moltissimo. Questo è un'altro dei mali che affliggono l'Europea. La politica monetaria era necessaria, su questo non si discute. Il punto debole non è Francoforte che a parte giuste critiche, riesce a governare il valore dell'euro. La vera defaillance è l'incapacità di Bruxelles nel governare l'economia reale. La strana situazione in cui oggi l'Europa si ritrova è che il mondo della moneta è rigidamente regolato, mentre l'economia reale manca di governo e coordinamento centrale. Basti vedere le politiche industriali e le politiche del mercato del lavoro.
A questo ultimo riguardo basti citare la mancanza di una politica europea dell'immigrazione. Tutto ciò è dovuto a bassi calcoli di cucina politica e alla miopia di chi pensa di utilizzare il mercato del lavoro nella sua componente migratoria come compensazione alla eliminazione delle così dette svalutazioni competitive. Al tempo delle monete nazionali il modo per dare ossigeno all'economia di un paese era provocare la svalutazione. Non potendo più mettere in pratica questo meccanismo i flussi migratori vengono utilizzati per flessibilizzare e precarizzare il mondo del lavoro consentendo così una boccata d'ossigeno all'economia. Se noi non metteremo temine a questa mancanza di governance dell'economia reale, l'Europa non potrà uscire dalle secche in cui si trova bloccata.

A livello europeo, la realizzazione del mercato interno, del Trattato di Maastricht e il successivo Patto di Stabilità, congiuntamente all'introduzione dell'euro riaffermano come obiettivo principale per le politiche europee la crescita economica e la competizione. La direzione intrapresa a livello europeo rischia però di erodere definitivamente il cosiddetto «Modello Sociale Europeo». A suo avviso date queste premesse scoraggianti, è ancora possibile pensare all'Europa come luogo in cui gli ideali di solidarietà e reciprocità possano giocare un ruolo determinante? E se si, quale ruolo potrebbe giocare in questo contesto l'idea di economia civile che da tempo lei va proponendo?

L'Europa ha senso soltanto se riesce a imporsi su scala mondiale come luogo in cui è possibile concepire la economia di mercato come espressione di economia civile. Se ci si chiede quale sia la caratteristica del modello europeo non si può rispondere né la competitività né la crescita. Cosa avrà mai da dire l'Europa a questo riguardo? Nel momento presente l'area Nord-americana e in un prossimo futuro India e Cina ci supereranno.
La sfida europea non deve rifiutare a priori né la competizione né la crescita economica. Il suo ruolo è aumentare il tasso di civilizzazione dell'economia. Il progetto dell'economia civile è disegnare un'architettura istituzionale in cui possono trovare posto è concreta possibilità di espressione i principi dello scambio di equivalenti, di redistribuzione, di reciprocità. Se l'Europa rinuncia ad una progetto del genere perde la sua ragion d'essere.

Quali politiche economico-sociali dovrebbero a suo avviso essere messe in pratica per garantire la coesione e l'eguaglianza sociale nell'Europa allargata?

Si deve superare la dicotomia tra leggi della produzione e quelle della distribuzione della ricchezza. Questa regola che fu proposta per la prima volta da John stuart Mill, sta alla base dei nostri sistemi di Welfare. Prima si produce e poi si ridistribuisce. Se vogliamo voltare pagina, bisogna riconoscere che questa dicotomia non è più valida. Non è possibile ottenere i risultati di socialità usando soltanto la leva della distribuzione del reddito. Perché per ottenere un risultato accettabile sul piano dell'equità la pressione fiscale dovrebbe attestarsi al di spora del 60%. Occorre allora agire sul momento della produzione democratizzando il mercato. Il mercato è democratico quando in esso possono operare, in condizioni di sostanziale parità, e tipologie diverse di imprese, imprese capitalistiche, cooperative, sociali, civili.

Molti studiosi sostengono che per incrementare la partecipazione nel mercato del lavoro e innalzare la qualità della vita sia necessaria una significativa riduzione dell'orario di lavoro. Secondo lei, il sogno keynesiano di una società migliore proposto nella famosa lezione ai nostri nipoti potrebbe passare per questa strada?

Non lo escludo a priori. Cerchiamo però di capire di che cosa stiamo parlando. Alla base di questo ragionamento c'è l'idea che la forma normale di fare impresa sia quella capitalistica. Ma accettando ciò, non si fa altro che legittimare lo status quo. Bisogna invece comprendere che l'impresa capitalistica è solo una specie del genus impresa. Da nessuna parte è scritto che una economia di mercato debba essere di necessità capitalista. Il mercato ha modi diversi di finanziamenti a seconda del tipo di imprese che in esso operano.
Un mercato pluralistico come prima lo descrivevo, e uno puramente capitalista danno risultati diversi. Credo quindi che una strategia alternativa alla riduzione dell'orario di lavoro si quella di realizzare un'autentica democratizzazione del mercato permettendo l'emergenza di modi alternativi di fare impresa come quello cooperativo, civile, sociale. Mai si dimentica che - contrariamente a quanto si continua a credere - l'economia di mercato è nata ben prima dell'avvento del capitalismo. E il suo fine era il bene comune. A partire dalla Rivoluzione Industriale, il bene comune viene sostituito dal bene totale. E' da questo mutamento di aggettivo che sono derivati i guai

L'ECONOMISTA DELLE BUONE MANIERE
Laureatosi nel 1966 in Economia e Commercio presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano), Stefano Zamagni è oggi ordinario di «Economia Politica» presso l'Università di Bologna. Per quanto riguarda la sua produzione teorica si possono ricordare i recenti volumi su «Economia Civile - Efficienza, equità, felicità pubblica» (scritto con Luigino Bruni e pubblicato dal Mulino), «Complessità relazionale e comportamento economico» (Il Mulino) e « Il non profit italiano al bivio» (Egea). Considerato uno degli studiosi più importanti del welfare state, Zamagni considera lo stato sociale uno spartiacque nella storia del capitalismo perché introduce la possibiltà di conciliare lo «scambio di equivalenti» con un'attitudine solidaristica. Da sempre assertore di una necessaria distinzione tra mercato e capitalismo, considera possibile lo sviluppo di un'economia pluralistica, dove imprese capitalistiche possono convivere con attività produttive non finalizzate al profitto. Da qui la riscoperta della «reciprocità» come bussola per orientare lo sviluppo di un «welfare civile», dove il settore no-profit è complementare e all'erogazione di servizi sociali garantita su base universale dallo stato.

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Dino Lovecchio

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